
Ventidue anni finii per abbandonare il calcio della giovinezza. Quello delle società di provincia, dei miti del vivaio, delle progressioni che portano un bambino a ritrovarsi con un pallone fra i piedi, in mezzo al fango, o in piena esplosione primaverile. Per poi trovarsi giovane adulto, con un altro fisico, un’altra testa e tante cose successe. Ed ogni volta che il pallone prende a rotolare, il senso del tempo muta, un pulcino sogna il calcio dei più grandi, le cavalcate e i goal.
La porta minuscola sembra così stretta quando miri all’angolino da sembrare fatata. E una palla da rincorrere sulla fascia è pari ad un proiettile che non puoi afferrare senza chiudere per un attimo gli occhi con il fiato che viene a mancare. Mentre tutto questo accade, il tuo corpo cambia, cambiano i compagni, le urla sugli spalti, i terreni, i numeri sulla schiena. Cambiano quando sei adulto persino le divinità che lo sorreggono questo gioco.” Ricorda Roberto Baggio.
Nasce il 18 febbraio 1967 a Caldogno, in provincia di Vicenza. E’ il sesto di otto fratelli la madre gestisce una casa che sembra una scuola, con bambini di tutte le età, il padre è un carpentiere devoto all’etica del lavoro che ama molto il ciclismo, infatti il suo ottavo figlio si chiamerà Eddie, in memoria del grande Merckx, cerca di trasmettere anche a Roberto la passione per il ciclismo ma non c’è verso.
Il piccolo Baggio è un bambino dai lineamenti vagamente asiatici, esile, timido e sensibile, talmente sensibile che ogni volta che passa un’ambulanza piange, come confesserà anni dopo.
Il problema di Roberto è che da subito, fin da piccolissimo, sembra soffrire di una vera e propria patologia: è malato di calcio!
Robi trasforma qualsiasi oggetto in un pallone e nelle porte di casa fa gol, nel bagno, in salotto, il corridoio è lungo e stretto, ma pieno di avversari immaginari, lui li salta tutti, esattamente come farà poi, con quelli veri.
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