Saponara ricorda Davide Astori con una toccante lettera ” Ti voglio bene Asto “

Saponara

La toccante lettera di Riccardo Saponara dedicata al capitano viola Davide Astori

Bellissimo ricordo di Davide Astori da parte di Riccardo Saponara, che a piu di 5 anni dalla scomparsa del Capitano affida i suoi pensieri a Cronache di Spogliatoio: “«Ricky, hai visto? La La Land ha vinto l’Oscar. Chissà se lo merita davvero». «Non lo so Asto, ma appena esce in Italia ce lo dobbiamo vedere per forza. E lo giudichiamo senza pietà, come sempre». «Va bene Ricky, vediamo se davvero si è meritato l’Oscar».

Se penso alla vita che si ferma improvvisamente, che ti lascia senza fiato e si spezza senza chiedere il permesso, penso a questo momento. Perché Davide era arredatore di interni, esperto di cinema di nicchia, cuoco, amante delle serie tv, il classico tuttologo. Non c’era cosa che non conoscesse. Un tipo strano per il calcio, ma il mio tipo preferito.

 Come ripeteva sempre, lui si sentiva un designer che nel tempo libero diventava calciatore. Se penso alla vita che ti lascia Sapevi motivare, sapevi riprendere, sapevi quando arrabbiarti, sapevi quando scherzare, e come farlo. Come quel sabato sera a Udine. Io, te e Marco (Sportiello, ndr) a cazzeggiare. Abbiamo parlato un po’ e poi vi siete messi a giocare alla Play. Maledetti. Lo sapevate che non mi piaceva giocarci, vi odiavo quando vi piazzavate davanti a quello schermo a urlare come pazzi incollati a FIFA. Quindi me ne andai in camera.La mattina scesi per fare colazione. Vidi le tue scarpe appoggiate fuori dalla camera di Marco. Se le sarà dimenticate lì ieri sera, pensai. Le tue posate, il tuo piatto e il tuo tovagliolo erano intatti. Strano, eri sempre il primo. Sarà stato un cameriere a cambiare il coperto. Non ci feci caso. Tornai in camera da Vincent Laurini, il mio compagno di stanza, per trascorrere le due ore prima del pranzo.

Sapevi motivare, sapevi riprendere, sapevi quando arrabbiarti, sapevi quando scherzare, e come farlo. Come quel sabato sera a Udine. Io, te e Marco (Sportiello, ndr) a cazzeggiare. Abbiamo parlato un po’ e poi vi siete messi a giocare alla Play. Maledetti. Lo sapevate che non mi piaceva giocarci, vi odiavo quando vi piazzavate davanti a quello schermo a urlare come pazzi incollati a FIFA. Quindi me ne andai in camera.

La mattina scesi per fare colazione. Vidi le tue scarpe appoggiate fuori dalla camera di Marco. Se le sarà dimenticate lì ieri sera, pensai. Le tue posate, il tuo piatto e il tuo tovagliolo erano intatti. Strano, eri sempre il primoSarà stato un cameriere a cambiare il coperto. Non ci feci caso. Tornai in camera da Vincent Laurini, il mio compagno di stanza, per trascorrere le due ore prima del pranzo.

Sentii il rumore di un’ambulanza e mi affacciai alla finestra. I portelloni sul retro erano aperti, le luci lampeggiavano di un blu più freddo del solito. C’era anche Leo, il nostro magazziniere, che camminava avanti e indietro nel parcheggio, fumando una sigaretta. La stava consumando tre tiri alla volta, in modo nervoso.

Leo, che fai?».

Aveva la voce rotta, non riuscivo a comprendere la sua risposta. Mi sporsi dalla finestra per avvicinarmi a lui. Forse l’avevo già sentita, ma il mio cervello si rifiutava di recepirla, di incamerarla, di accettarla. Come un impulso che porta a un netto rifiuto.

«Davide è morto!».

Il vuoto, una scarica elettrica che ti paralizza. Non riuscivo a percepire la sua voce fino in fondo. O forse non volevo. Gli chiesi di ripetere una seconda volta, e lo fece. Mi voltai verso Vincent con gli occhi sbarrati. Come avrei dovuto comunicargli una cosa del genere? Non ci fu il tempo, perché qualcuno bussò alla porta della nostra camera. Aprii con la forza di chi ha smarrito il proprio io, di chi non è padrone del proprio corpo per qualche secondo.

Era il mister. C’era Stefano Pioli in lacrime: «Davide non c’è più». Continuava a piangere, lacrime implacabili. Mi abbracciò forte, un gesto che avvertii come disperato. Fu in quel momento che mi affacciai al corridoio. Alcuni miei compagni erano a terra, pietrificati. Altri si rifiutavano di accettare che fosse accaduto davvero, che fosse accaduto a Davide. Sentivo i pugni sbattere sulle pareti dell’hotel. Urla di rabbia e dolore: «Come cazzo è possibile!!!». Cercavano di capire perché la vita era stata così infame. Ma una risposta non c’era e non c’è nemmeno ora. Ricordo di aver sentito distintamente le urla di Fede (Chiesa, ndr), che era appena stato svegliato con quella notizia. Erano urla di disperazione, incontrollate. Stava spaccando tutto in camera, era in preda al raptus di chi non accetterà mai quella sentenza.

Perché per noi la sua scomparsa è rimasta un tabù, ma ciò che ci ha lasciato è una prova tangibile. Un mese fa ho incontrato Veretout, l’ho affrontato due volte in pochi giorni. A Firenze, Jordan non parlava italiano, non avevamo legato molto. Non interagivamo e io ho bisogno di parlare con le persone per entrare davvero in profondità. Però quando ci siamo ritrovati dopo tanto tempo, era come se fossimo amici di vecchia data. Dialogavamo in modo fluido come due persone che avevano condiviso qualcosa di inscindibile, anche senza parlarsi. Come se Davide fosse la lingua universale che ci ha unito per sempre. Quando incontro un mio ex compagno alla Fiorentina è così, nessuno dei due affronta l’argomento. Credo che abbiamo paura di come l’altro potrebbe reagire dentro di sé. Nell’abbraccio che ci diamo per salutarci, però, implicitamente ci mettiamo tutto. E ogni volta è speciale.

Le sue doti umane erano innate. Se stavi facendo un esercizio e accanto a te c’era un ragazzo straniero, che non conosceva la lingua, correva a rompere il silenzio inventandosi parole e facendolo sentire a suo agio. Poteva non parlare la lingua del compagno, ma non faceva alcuna differenza. Finiva tutto con una risata. Era il collante. Il leader che non ha bisogno dell’ufficialità della fascia per essere riconosciuto. In quella squadra così multietnica, lo spogliatoio non si era amalgamato automaticamente all’inizio. Il suo intervento fu fondamentale. E quando venne a mancare ci accorgemmo di quanto fosse pesante la sua presenza. Solo quando perdi qualcosa ti accorgi del suo reale valore, è vero, ma la sua forza era indiscutibile. E così sarà per sempre. Ti voglio bene Asto

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